Come in tantissime altre parti d’Italia, anche nell’appennino modenese ogni borgata, ogni casa isolata, ha un suo nome proprio. Addirittura, anche i campi hanno spesso un loro nome. Il toponimo “Casa Capuzzola” era già presente negli archivi parrocchiali di Verica nel 1795, segno che l’abitazione storica – dove tutt’ora risiedo – era già esistente. Gli abitanti di quel tempo indicati nei registri però non avevano il cognome dei miei avi. Non sono mai riuscito a risalire come la proprietà sia arrivata intorno al 1850 al mio trisnonno. Fatto sta che agli inizi del 1900 la famiglia Cortesi nella quale era la mia bisnonna materna era proprietaria di vasti appezzamenti di terreno nelle “basse di Verica”, tra i quali appunto il podere di Casa Capuzzola. Una delle famiglie, all’epoca, tra le più agiate.
Di generazione in generazione la proprietà si frazionò tra figli e nipoti fino a piccoli poderi che alla fine degli anni ‘60 non erano più in grado di offrire sussistenza. Ci fu un esodo abbastanza importante verso le città. Mia nonna materna era rimasta vedova molto molto giovane, con debiti appena contratti per acquisto di parti di terreno da sorelle. Il figlio già maggiorenne lavorava come casaro in un caseificio per parmigiano Reggiano, con la figlia (mia madre) appena dodicenne abbandonò il podere. Si spostarono a “servizio” presso famiglie benestanti di Bologna, oltre a trasferte in Francia per la raccolta dei fiori necessari a produrre profumi.
La casa fu saltuariamente affittata ad altre persone della zona che però non utilizzarono – o quasi – i terreni per l’agricoltura. Agli inizi degli anni ‘70 mia madre, sposata molto giovane, e residente a Bologna, acquistò la quota di suo fratello. Così la casa che era stata del trisnonno, suddivisa in due porzioni con altri parenti, iniziò ad essere la nostra casa di campagna, dove in ogni fine settimana ci si spostava dalla città. Io avevo appena 8 anni. La casa non era nemmeno raggiungibile da una comoda strada, con tempo piovoso per arrivarci si doveva fare un lungo sentiero a piedi attraverso i boschi, dopo aver lasciato l’auto sulla strada provinciale.
Si dice che il luogo che sentiamo come quello nostro di nascita sia quello nel quale da piccoli prendiamo coscienza di esistere. Nonostante io sia nato a Bologna, è qui che iniziai ad avere la mia prima autonomia con escursioni nei boschi alla ricerca di nidi di uccellini, i primi esperimenti di coltivazioni di ortaggi. Ed è qui che da adolescente più che nella città mi feci gli amici con i quali ero in maggior sintonia e che sono rimasti da allora come gli amici più fraterni. È questo quindi quello che io sento come il luogo dove “sono nato”.
Sia come sia, all’età di 23 anni non ci pensai nemmeno due volte all’idea di trasferirmi in questa casa lasciando definitivamente la città, scegliendo la vicina cittadina di Pavullo come luogo di lavoro all’interno dell’Ente Regione Emilia-Romagna nel quale avevo appeno vinto un concorso come agrotecnico.
I terreni abbandonati da anni erano quasi tutti in frana. Quelli più vicini alla strada provinciale ruspati per frane che avevano coinvolto la viabilità, ma senza ripristino del cotico erboso. I boschi erano anni che non venivano puliti e tagliati a ceduo, quasi impenetrabili dai rovi. Come ho già scritto, mancava anche una vera e propria strada. Il Land Rover 88 del 1963 che tutt’ora utilizzo come mezzo agricolo lo acquistai nel 1987 in verità solo per riuscire ad arrivare a casa con ogni situazione metereologica.
La mia passione per l’allevamento delle pecore scattò nell’aprile 1987. In questo sito c’è un mio racconto specifico al proposito. Comunque, nelle intenzioni c’era una attività economica all’aria aperta, lontano dallo stress cittadino, che avrebbe utilizzato terreni montani altrimenti abbandonati, basata sull’allevamento degli animali confinati all’interno di recinzioni specifiche e necessità di minima manodopera. Il tutto seguendo le indicazioni di un libro: OVINICOLTURA PRATICA di ELIO BALDELLI, allevamento moderno e razionale della pecora da reddito. Era uscito nel 1985, da Edagricole.
Tra il 1987 – anno del mio trasferimento qui a 23 anni – ed il 1994 senza grandi risorse economiche ma tanto lavoro personale, con l’aiuto di amici e famigliari, costruii la stalla per le pecore, venne finalmente sistemata ed addirittura asfaltata la strada di accesso, e recintati gran parte dell’azienda agricola. Furono realizzati anche alcuni interventi di recupero ambientale: sistemate frane e puliti i fossi, riaperte le strade, puliti i boschi.
Alla fine del 1994, per diversi motivi, fui costretto a scegliere tra il mio lavoro principale e l’azienda agricola. Così, piuttosto di chiuderla, preferii cederla in affitto ad un amico coltivatore diretto del luogo che già lavorava nella azienda agricola della madre, un grande allevamento di bovine da latte.
Rilevata in affitto l’azienda, al nuovo titolare apparve subito evidente che per dargli una prospettiva economica occorreva puntare ad un diverso indirizzo produttivo, passando quindi dall’allevamento ovino esclusivamente da carne a quello da latte con trasformazione diretta in formaggio. Le potenzialità c’erano, nonostante le ridotte dimensioni: intanto la presenza di una grande arteria come la strada fondovalle Panaro con il suo traffico di pendolari del week-end che in ogni stagione la utilizzano per arrivare alle alte montagne vicine, Fanano e Sestola. In secondo luogo, la presenza di un unico corpo di terreno di circa 20 ettari, già ottimamente recintato. In terzo luogo, la mia esperienza di allevatore di ovini. Come proprietario del terreno, seppur privatomi della gestione diretta dell’azienda, non intendevo comunque abbandonare a sé stesso il nuovo titolare e, a titolo gratuito, mi interessai comunque alla riuscita della attività (in cui avevo investito già tanto tempo e denaro) ed alla sistemazione del centro aziendale che aveva bisogno ancora di lavori…
Nel 1995 cominciano quindi anni di intensa attività edilizia soprattutto per adeguare l’azienda alle svariate norme esistenti nel settore alimentare. Non cessano inoltre gli interventi, importanti e costosi, in campo ambientale e di difesa del suolo. Questi lavori producono indirettamente benefici effetti sulla stabilità globale del versante a vantaggio soprattutto della strada provinciale sottostante, la fondovalle Panaro n.4, fino a quel tempo afflitta da problemi vari di frane anche e soprattutto nel tratto di circa 1 km che attraversa l’azienda.
Grazie alla fiducia accordata dai diversi Enti che amministrano i fondi pubblici per il sostegno della agricoltura, l’azienda riceve in quel periodo indispensabili contributi economici. Notevole rimase comunque l’onere a mio carico come proprietario. Si parla di spese notevoli in proporzione alle piccole entrate. Il mio impegno fu la copertura dei costi che mancavano rispetto ai contributi pubblici stanziati. E nonostante questo, nella previsione dell’affittuario occorrevano comunque diversi anni di bilancio sano all’azienda prima di recuperare le spese sostenute per poter produrre.
Alla fine del 2001 i lavori indispensabili per avere le necessarie autorizzazioni erano terminati e l’azienda era arrivata quasi al regime produttivo previsto.
Ma iniziò un periodo di gravi problemi. Che non sono ancora finiti.
Nell’aprile 2002, complici una maledetta sfortuna e una normativa non più adeguata alle moderne conoscenze scientifiche, una pecora, acquistata 18 mesi prima in una altra azienda, morì nei pascoli in circostanze ignote. Agli esami obbligatori ne venne riscontrata la positività alla Scrapie (pecora pazza). A quella data la normativa italiana per questa malattia prevedeva ancora l’abbattimento di tutti gli animali dell’azienda, anche quelli sani. Tutte le pecore dell’azienda – 117 animali – vennero uccise il 30 maggio 2002 dai veterinari dell’USL. Agli esami effettuati si troverà che le pecore uccise erano tutte sane. La legge sarà modificata dopo pochi mesi. Con le leggi attuali quasi tutte le pecore si sarebbero salvate. L’azienda fu anche posta sotto sequestro sanitario e dovette chiudere l’attività e la vendita. I risarcimenti regionali, anche se consistenti ed equi, arrivarono con 4 mesi di ritardo solo nel novembre 2002.
L’affittuario sconfortato rinunciò all’azienda alla fine del 2002.
Io tentai di nuovo l’avventura, anche con maggior tempo a disposizione essendo passato nel frattempo ad un lavoro regionale part-time. Acquistai nuovi animali e la produzione timidamente riprese alla fine di dicembre 2002.
Nel frattempo, socio del WWF da quando ero adolescente, non avevo fatto mancare il mio impegno nella collettività. Come responsabile del gruppo attivo locale di quella associazione ero stato artefice dal 1993 di importanti battaglie locali contro la cementificazione, il disboscamento, l’escavazione selvaggia di ghiaia nei fiumi, l’inquinamento delle falde acquifere. A causa “forse” di quei contrasti con gli amministratori locali nel gennaio 2003 fu l’ufficio edilizia del Comune di Pavullo a creare problemi all’ azienda. Con motivazioni e richieste di documenti “inutili” che contestai pubblicamente come pretestuose, mi vennero rifiutate le concessioni ed autorizzazioni edilizie per le ultime e minime opere necessarie; per le quali, come sempre in passato, erano state fatte tutte le pratiche e la documentazione. E venne anche avviato un procedimento per presunto abuso edilizio per aver iniziato prima del tempo, anche se in minima parte, questi lavori richiesti (tamponamento di una tettoia preesistente con pannelli di legno per evitare che gelasse l’acqua dentro l’ovile).
Considerate le azioni della Amministrazione ma soprattutto le premesse dalle quali probabilmente nascevano i problemi sollevati dall’ufficio edilizia, dopo aver atteso invano di ottenere le concessioni dovute (o perlomeno i necessari chiarimenti con il Comune, che però vennero ripetutamente negati) nel febbraio 2003 persi la pazienza e passai alle vie di fatto. Per protesta verso il Comune, il 18 febbraio 2003 chiusi l’azienda per sdegno (def. “vivo risentimento ed irritazione determinato da qualcosa che non si può tollerare, specialmente perché offende il senso morale“). Quindi comunicai ufficialmente al Sindaco di non aver intenzione di subire quelle che ritenevo fossero le vessazioni di quell’ufficio e anche in assenza delle concessioni necessarie ed in presenza di ordinanze di sospensione lavori, ripresi e terminai rapidamente quei minimi lavori edilizi bloccati pretestuosamente. E chiesi, anche con diversi feroci comunicati alla stampa, che vennero pubblicati ripetutamente nei mesi senza mai alcuna replica dall’Amministrazione Comunale, di andare al più presto di fronte ad un giudice insieme al funzionario comunale che creava problemi a spiegare le ragioni aziendali.
L’Amministrazione Comunale tacque e non replicò mai. Però del procedimento di abuso edilizio avviato nel marzo 2003 non venne mai data comunicazione all’azienda di una sua conclusione con ordinanze di alcun genere. Successivamente, nel novembre 2003, venne bloccata dal medesimo funzionario di quell’ufficio edilizia e senza spiegazione all’azienda, un’altra legittima istanza relativa ad una cantina. Dopo altre mie furiose proteste e la pubblicazione nei minimi dettagli di tutte queste vicende nel sito internet dell’azienda, nell’aprile 2004 anche questa ultima secondaria istanza venne finalmente portata a termine positivamente. Nell’estate 2004 ritornò quindi anche il dialogo con l’Assessore comunale e i funzionari dell’ufficio edilizia dell’Amministrazione di Pavullo. Tutti i soggetti erano ormai convinti a trovare una soluzione pacifica chiudendo il litigio con il minor danno per tutti. Dopo la presentazione da parte mia dei documenti di rito (ma non di quelli richiesti dal comune per bloccare le pratiche nel gennaio 2003, che evidentemente davvero non servivano, come era la mia tesi) ed il pagamento da parte mia di una minima sanzione, la questione si concluse quindi nel marzo 2005 con il rilascio da parte dell’Amministrazione, per tutti i lavori eseguiti, di una concessione edilizia in sanatoria. Con la quale ritornai anche sulla carta ad essere il cittadino in regola che sono sempre stato. A quel punto, come promesso, dopo più di due anni di serrata per protesta, nel marzo 2005 l’azienda cessò lo sdegno e riaprì la produzione e la vendita al pubblico.
In contemporanea a queste vicende, nell’aprile 2004 si aprì un forte contenzioso diverso: giù le mani dal fiume. La lite fu con l’ufficio regionale della difesa del suolo che voleva autorizzare, nel letto del fiume Panaro, esattamente al piede della mia azienda agricola, una rettifica dell’alveo con asportazione di ingenti quantitativi di ghiaia. A mio avviso senza che questo fosse necessaria o utile, e senza soprattutto le necessarie garanzie di tutela del versante in precario equilibrio. Mettendone a rischio la stabilità ottenuta con grandi sacrifici. La trattativa fu serrata e durò un paio di mesi. Anche in questo frangente si vissero momenti di grande tensione. Nel giugno 2004, grazie all’interessamento di un consigliere provinciale (che in aprile aveva fatto una interrogazione in Consiglio) e all’impegno dell’Assessore provinciale all’ambiente si concordarono dei lavori nel fiume leggermente diversi dal progetto iniziale. Grazie a questi accordi, prima della rettifica fluviale e dell’asportazione di ghiaia fu realizzata proprio lungo tutta la mia fattoria un’importante difesa spondale sotterranea con massi ciclopici, lunga 200 metri e larga 5 metri, a garanzia preventiva contro futuri problemi provocati dall’asportazione e movimentazione del materiale nel fiume. I lavori furono perfettamente realizzati nel luglio-agosto 2004 dalla ditta incaricata ed al termine delle opere ringraziai tutti pubblicamente.
Nonostante tutte le amarezze sofferte, alla fine del 2005 la mia azienda aveva quindi ripreso l’attività. Grazie anche ai finanziamenti previsti dalla Comunità Europea per l’agricoltura biologica e l’agricoltura nelle aree di montagna, ritrovò un suo equilibrio economicamente sostenibile. Ma anche arrivare a questo fu un motivo per me di grande stress. Nel novembre 2005 ero passato all’allevamento biologico (dal 1994 erano a coltivazione biologica solo i terreni). Nel gennaio 2006 protestai vivacemente contro le scelte della Regione Emilia-Romagna e della Comunità Montana in tema di quei contributi: per attribuire quei finanziamenti europei del piano di sviluppo regionale, mediante una serie di parametri complicati la precedenza in graduatoria venne data non alle aziende agricole produttrici, ma alle aziende che, in pratica, smettevano di coltivare i terreni e si limitavano solo a tenerli puliti. La mia protesta non ottenne alcun successo, ma alla fine, anche su finii in fondo alla graduatoria delle richieste, rientrai ugualmente tra le aziende beneficiarie dei contributi CE. Alla Comunità Montana arrivano soldi per tutti i richiedenti!
Nel frattempo che si costruiva l’azienda e la si difendeva come descritto fin qui, il mondo stava però cambiando. Con progetti LIFE della Comunità Europea tesi a riportare la natura selvaggia nei territori extra-urbani rurali venivano finanziati studi, convegni, incontri, lezioni tra la popolazione per favorire in tutti i modi il ripopolamento del lupo. Specie ultra-protetta dagli anni ‘70 in quanto all’epoca vicina all’estinzione. Per gli allevatori con animali al pascolo, che a parole nelle intenzioni dei protezionisti sarebbero stati completamente tutelati, non fu però previsto assolutamente nulla. Non solo non vennero stanziati aiuti economici, ma non ci fu neanche un avvertimento su quello che sarebbe presto successo.
Il lupo arrivò intorno a me nel 2006 con mia totale sorpresa. L’impreparazione nella quale mi trovai con la mia azienda recintata con recinti alti solo 130 cm ed animali al pascolo senza possibile custodia, portarono alla conseguenza che in tre anni, giugno 2010, ci fu la distruzione totale della fattoria. Tra la negazione del problema, l’indifferenza ma anche vera e propria ostilità della Pubblica Amministrazione. Le ultime pecore non ancora uccise dal lupo le regalai ad un pastore nel giugno 2010 dopo un verbale di diffida dei veterinari e della provincia di Modena a trovare una soluzione alle aggressioni del lupo altrimenti sarei stato denunciato per maltrattamento delle pecore.
Tutti gli investimenti fatti per l’allevamento e la produzione nei quasi vent’anni precedenti divennero improvvisamente inutili. Di fatto mi sentii come espropriato senza indennizzo.
Nel 2012 decisi che non l’avrebbero vinta loro. Iniziai interamente a mie spese la modifica di tutte le mie recinzioni, allo scopo questa volta non di tenere dentro i miei animali, ma di tenere fuori quelli degli altri, i lupi. Un percorso che finì nel 2019 ridandomi la tranquillità che volevo nei 5 anni successivi. Con la necessità però a fine ottobre 2024 di provvedere ad ulteriori opere per colpa di istrici che si erano dimostrati in grado di rompere le reti. Da lì il lupo tornò ad entrare uccidendo in due distinti episodi 25 animali, un terzo del gregge, tornato nel frattempo a oltre 60 animali
Tutti i dettagli della mia storia di resistenza ai lupi dopo il 2007 e le modifiche alle recinzioni fatte dopo il 2012 con tecniche originali si trovano nelle sezioni dedicate di questo sito internet.